Si viaggia all’estero, s’incontra gente di tutto il mondo e ovviamente molti italiani.

Italiano? Anche un po’ meno.

Ho letto perfino un libro nel quale si raccontava che un alpinista italiano feritosi durante una scalata era stato amorevolmente curato da un medico italiano che lavorava sulle montagne del Bhutan.

Sentendo parlare italiano, magari in qualche posto remoto all’estero anche se non esotico, come potrebbe essere un’isoletta greca, la prima reazione è di empatia e solidarietà; purtroppo, però, non dura molto perché subentra lo spirito critico di noi italiani che ci portiamo appresso come uno zainetto dell’Invicta. S’incominciano a considerare i troppi tatuaggi, le unghie laccate e ignobilmente troppo lunghe, gli occhiali da sole inforcati anche dopo il tramonto, l’abbigliamento ostentato e spesso fino troppo griffato o e il parlare a voce troppo alta e così via dicendo.

A quel punto scatta lo snobismo. Il nostro senso critico ci pone una domanda angosciante: ma sono anch’io così terribilmente e palesemente italiano/a? E, anche se non sappiamo rispondere, tra noi e noi pensiamo: “uffa, un altro italiano!”.

Ps.: per carità di Patria non dico nulla dei romani che hanno qualche difetto aggiuntivo che non svelerò.

I miei difetti, nello specchio dell’Altro, sembrano ancora più feroci, ma come c’insegna una star della scienza quale Giacomo Rizzolatti (che con il suo team di ricercatori li ha scoperti tra gli anni ’80 e ’90 del XX secolo) è vero anche il contrario perché i “neuroni specchio” stanno alla base dell’empatia.

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