Alberto Giubilo, uno dei massimi esperti italiani di ippica e di equitazione e, en passant, giornalista e cronista sportivo, diceva che senza tutte le ore, trascorse inutilmente in attesa in aeroporto, per memorabili ritardi, disguidi e simili, sarebbe stato più giovane di vent’anni.

In questa “boutade” c’è un fondo di verità perché tutti noi siamo finiti nel corridoio dei passi perduti di qualche aeroporto o stazione ferroviaria, a volte per un tempo che ci è parso interminabile e con motivazioni più o meno attendibili.
Credo che uno degli incubi ricorrenti di molte persone sia appunto quello di ritrovarsi in un posto sperduto, nell’attesa ormai disperata, di un aereo, di un treno o di una nave. Io personalmente vivo ancora con un brivido ghiacciato lungo la schiena l’attesa, in piena notte, e per tante ore, di un traghetto su una banchina, buia e ventosa, di una remota isola greca.
Al di là dell’oggettiva lunghezza di certe attese, c’è il nostro aspetto soggettivo: viviamo questo tempo perduto come una sottrazione, quasi il furto di un pezzo della nostra vita, una condanna più o meno lunga all’ansia e al pessimismo che ne consegue. E invece, se ne fossimo capaci, potrebbe essere un momento tutto nostro, per riordinare le idee, buttare alcune zavorre e ritrovare capacità progettuali (per esempio: stilando mentalmente delle liste) e soprattutto un’occasione per rilassarci e riascoltare la nostra musica interiore.

Ricordo un vecchio libro di Britt Ekland (qui sopra in una foto del 1972, Allan warren, CC BY-SA 3.0 Wikimedia Commons), attrice e modella svedese bellissima ed ex moglie di Peter Sellers, che raccontava come lei riuscisse negli aeroporti e durante il volo a rilassarsi addirittura idratando la pelle al massimo (l’aria pressurizzata, si sa, non fa bene alla pelle) ma soprattutto leggendo un buon libro e cercando di dormire nel migliore dei modi.
Non dobbiamo rassegnarci alle attese e darla vinta all’ansia. Io, per esempio, ho utilizzato “un’ora morta” per raccontarvi tutto questo.
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