L’altro giorno, riordinando un cassetto ho trovato delle mie vecchie foto- tessera conservate per la vecchia aspirazione di poterle utilizzare al volo una volta scaduto il passaporto o la carta d’identità.

Oggi non è più così e gli Enti preposti a rilasciare documenti accettano anche foto fatte con i cellulari: basta che dietro ci sia uno sfondo bianco e soprattutto che non si sorrida.

I tempi non sono più gli stessi ho pensato, la mia prima foto tessera per la patente (rigorosamente in bianco e nero: oh, mio Dio!) aveva rubato tempo dal parrucchiere, richiesto il trucco, l’impegno di un fotografo con relativa camera oscura e il ritiro dopo due o tre giorni ma ricordo che il risultato non era quello che aspettavo.

Con che rabbia dovevi tenere 10 anni questa orribile foto-tessera e ti sentivi una sfigata, specialmente quando si andava in viaggio in gruppo e ci si stuzzicava un poco. Per fortuna però erano terrificanti anche tutte le altre foto e non ci si pensava più di tanto.

L’ideale di perfezione c’è sempre stato, sin dalla notte dei tempi o quantomeno da quando Freud e gli altri hanno cominciato a studiarlo.

Nell’ideale di perfezione c’è sempre un “orgoglio personale dell’Io” che non accetta il giudizio che viene dal Sé e la critica viene sempre rigettata. Successivamente, poiché la negazione non distrugge la presenza di questo giudizio negativo, essa genera a sua volta un “Io Persecutorio” che ha il compito di giudicare, condannare e punire in continuazione.

Il non saperci accettare ci costringe, in qualche modo, a fuggire dalla realtà e la frustrazione che questa fuga genera ci porta ad accettare, per punizione, rapporti malsani.

Non accettarci ci allontana da noi stessi! E’ un ragionamento complesso e ci tornerò su.

Dove casca l’asino?

É sull’ideale di perfezione però, come diceva mia nonna, che casca l’asino!

Se non proverò a lavorarci, a fare questi “passaggi”, magari cercando aiuto, leggendo libri e/o provando a parlarne con amici o con qualcuno di cui mi fido, mi ritroverò in un circuito che anelerà la perfezione a tutti i costi.

Secondo un ormai vecchio ma importante sondaggio l’uso dei social network fa sentire la metà delle persone dai 18 ai 34 anni meno attraenti. Ma la cosa più grave è che da una ricerca analoga è emerso che i tassi dell’ansia e della depressione sono aumentati parallelamente all’uso dei social.

Allora bisogna assolutamente trovare un modo per aiutare le persone ad essere più consapevoli.

Questo processo dovrebbe iniziare in famiglia e le scuole poi e le università dovrebbero fare la loro parte, far comprendere sin da piccoli la differenza tra vita reale e quella “esibita” sui social: spesso i post servono a proiettare immagini di sé perfette e patinate ma non comunicano un bel niente.

Un bell’esercizio da fare tra i giovani condizionati dai vari social potrebbe essere quello che la mia professoressa di Storia ci imponeva ai tempi delle scuole medie con il registratore a tracolla (alla Pasolini per intenderci): chiedere alle persone anziane in famiglia o per strada di raccontare le loro esperienze personali più preziose. Oltretutto oggi sarebbe più facile perché con il cellulare è tutto alla portata di un click.

Se si facesse si comprenderebbe all’istante che quando ripensi ai momenti salienti della tua vita, quello che conta davvero, non è mai finito sui social.

Vi ricordate il film “Il favoloso mondo di Amélie”? Amélie raccoglieva le foto scartate e gettate via alle macchinette automatiche convinta che fossero più veritiere di quelle conservate e adoperate.


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